È la cronaca di un fallimento annunciato. Dopo due mesi e mezzo in cui il blocco agli aiuti umanitari ha spinto la Striscia di Gaza sull’orlo della fame, la ripresa si è trasformata in una catastrofe, come avevano previsto le organizzazioni umanitarie sul posto, tagliate fuori dalla distribuzione per decisione di Israele. Il 28 maggio la consegna degli aiuti è stata interrotta a causa del caos. Tel Aviv ha immediatamente ripristinato il blocco che affama la Striscia di Gaza.
Il governo israeliano si è rifiutato di affidare alle Nazioni Unite e alle ong internazionali la responsabilità di distribuire gli aiuti, ripresi anche grazie alle pressioni statunitensi. Lo stato ebraico ha assegnato invece il compito a un’organizzazione sconosciuta e senza esperienza, che in realtà rappresenta solo uno strumento nelle sue mani, da usare per fini politici.
La scelta di Israele ha provocato un enorme caos durante l’arrivo in massa dei palestinesi, privati di qualsiasi bene di prima necessità ormai da undici settimane. I dipendenti della nuova organizzazione sono stati immediatamente travolti dalla folla affamata, tanto che l’esercito israeliano, usando anche un elicottero da combattimento, ha aperto il fuoco per proteggerli. Il bilancio è di 48 feriti e un morto. A Gaza le persone muoiono perché cercano di sfamarsi.
La Gaza humanitarian foundation (Ghf), che Israele ha incaricato di distribuire gli aiuti, è nata da poco e non ha né esperienza né una preparazione adeguata. I professionisti del settore si sono rifiutati di collaborare con l’organizzazione nella convinzione che le autorità israeliane non avessero garantito il rispetto della legge e dell’etica. Il direttore della Ghf si è dimesso nel fine settimana.
Le inchieste giornalistiche, sia negli Stati Uniti sia in Israele, hanno mostrato che gli uomini dell’organizzazione sono in realtà ex agenti della Cia, dipendenti dell’agenzia di sicurezza privata Blackwater o ex militari statunitensi. In una parola, mercenari. A muovere i fili di questa struttura, di fatto, è Israele, che grazie a lei vorrebbe militarizzare la consegna degli aiuti. L’origine del finanziamento dell’operazione, nell’ordine delle decine di milioni di dollari, è sconosciuta.
Il piano era semplice: accusando l’Onu e le ong di permettere ad Hamas di gestire gli aiuti, Israele aveva deciso di fare una selezione dei destinatari degli aiuti, identificandoli grazie al riconoscimento facciale. Sulla carta sembrava un piano perfetto, ma la realtà ha fatto crollare il castello di sabbia a causa delle privazioni estreme a cui sono sottoposti i palestinesi dallo scorso 2 marzo. Gli operatori umanitari non ne sono sorpresi, perché avevano previsto questo livello di impreparazione.
La prima lezione da trarre da questo fallimento è che il governo israeliano, per ragioni ideologiche, ha causato un altro risvolto tragico a una situazione già disperata. Il sospetto è che l’obiettivo reale delle autorità israeliane fosse quello di identificare i palestinesi e dividerli per spingerli a partire, come prevede il piano ideato da Benjamin Netanyahu e dai suoi partner di estrema destra.
La seconda lezione è che Israele, allontanandosi ulteriormente dal diritto internazionale umanitario, si comporta in modo sempre più inaccettabile anche per la sua popolazione. Dopo seicento giorni di guerra i sondaggi indicano che gli israeliani, se si votasse oggi, boccerebbero l’attuale coalizione. L’ex primo ministro Ehud Olmert ha apertamente accusato il governo di aver commesso crimini di guerra.
Il caos legato alla distribuzione degli aiuti umanitari è l’ennesima conseguenza dell’impasse verso cui il governo israeliano ha spinto la sua guerra vendicativa a Gaza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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