La frase pronunciata dal primo ministro israeliano è priva di qualsiasi ambiguità: all’emittente statunitense Abc, Benjamin Netanyahu ha dichiarato che uccidere l’ayatollah Khamenei “non provocherebbe un’escalation. Al contrario, metterebbe fine al conflitto” con l’Iran.

La mattina del 16 giugno mi interrogavo sull’obiettivo di guerra di Israele, chiedendomi se potesse essere un cambio di regime in Iran. Netanyahu ha risposto chiaramente poche ore dopo. Il governo israeliano non esclude la possibilità di colpire il vertice della piramide del potere iraniano. In Iran la guida suprema conta più del presidente.

La dichiarazione di Netanyahu è importante per due motivi. Prima di tutto fa capire quale sia la fiducia nei propri mezzi di Israele (che in quattro giorni ha mostrato la sua superiorità militare) al punto da comunicare apertamente che il capo del paese nemico è un obiettivo. Le parole di Netanyahu sono in linea con ciò che Israele ha annunciato fin dall’inizio, ovvero l’intenzione di infliggere all’Iran la stessa punizione riservata a Hezbollah. Ricordiamo bene l’uccisione del leader dell’organizzazione Hassan Nasrallah.

Il secondo punto su cui concentrarsi è la capacità di Israele di svelare l’intenzione di assassinare il capo nemico senza temere la minima conseguenza internazionale.

Il 16 giugno le testate statunitensi hanno diffuso la notizia di un veto di Donald Trump all’idea di Netanyahu di eliminare l’ayatollah Khamenei. Meno di 24 ore dopo, Netanyahu ha fatto il suo annuncio senza esitazioni, facendo capire che il veto, se mai ci sia stato, non esiste più. Il capo del governo israeliano si sente abbastanza forte e protetto da non avere bisogno di nascondersi.

I rapporti fra Trump e Netanyahu sono molto interessanti, in questa fase. Il presidente statunitense sembra esitare, contraddirsi e seguire la leadership di Netanyahu, che nella notte tra il 12 e il 13 giugno ha scatenato la sua guerra totale contro l’Iran 48 ore prima della ripresa del negoziato tra Teheran e Washington a Mascate. All’inizio è sembrato che Trump avesse disapprovato l’azione militare, ma quando sono cominciati i bombardamenti si è complimentato con Israele.

Ancora oggi è difficile seguire Trump. Il presidente statunitense lascia intendere che il negoziato con l’Iran sul programma militare è ancora possibile e che non vuole intervenire nel conflitto fino a quando non saranno colpiti gli interessi statunitensi.

Trump è l’unico a poter fermare questa guerra, ma non lo fa, o non ancora. È chiaro che gli statunitensi sono felici che il programma nucleare iraniano sia stato indebolito. Ma gli israeliani vogliono di più, perché Washington è la sola a possedere la bomba che potrebbe distruggere l’impianto nucleare sotterraneo di Fordo.

Se vogliamo credere a Netanyahu, non esistono limiti a questa guerra e nemmeno sulla sorte di Khamenei, successore di Khomeini, simbolo supremo della rivoluzione islamica. Se invece vogliamo credere a Trump, la guerra può durare ancora tre o quattro giorni, prima di finire con un negoziato con un Iran considerevolmente indebolito.

Per il momento è Netanyahu ad agire e non sembra intenzionato a rispettare alcun limite: né militare, grazie alla superiorità del suo esercito; né diplomatico, grazie alla copertura statunitense, che gli garantisce tempo e impunità. Quando dice che Khamenei è un obiettivo, faremmo meglio a prenderlo sul serio.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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