Quando lo scorso ottobre il comitato per il Nobel norvegese ha annunciato che il premio per la pace sarebbe andato alla Nihon Hidankyō, l’associazione giapponese dei sopravvissuti ai bombardamenti atomici, non tutti hanno esultato. In un momento storico in cui le guerre si moltiplicano a un ritmo inquietante e si parla con insistenza di nuova guerra fredda, il riconoscimento a un’organizzazione pacifista che da decenni si batte per un mondo senza armi nucleari è sembrato, se non altro, di buon auspicio.
Per di più quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario dei bombardamenti atomici, e il numero dei superstiti va assottigliandosi rapidamente. Eppure la notizia ha suscitato reazioni contrastanti dalle parti di Hapcheon, in Corea del Sud, soprannominata la “Hiroshima coreana” per il numero di coreani che dalle città giapponesi bombardate, a guerra finita, tornarono nel paese d’origine.
Come altri milioni di connazionali, erano finiti in Giappone durante il periodo coloniale (dal 1910 al 1945), alcuni volontariamente per trovare lavoro, altri in modo forzato. Durante la guerra, molti coreani furono condotti nelle fabbriche giapponesi di armi e munizioni, come la Mitsubishi di Nagasaki, e costretti a lavorare. Si calcola che tra il 10 e il 20 per cento delle centinaia di migliaia di persone colpite dalle due atomiche fossero coreani (50mila a Hiroshima e 20mila a Nagasaki furono esposti alle radiazioni; in 40mila morirono a causa delle bombe). Eppure ancora oggi nell’immaginario comune, dentro e fuori dall’arcipelago, l’esperienza dell’atomica è considerata propriamente giapponese.
La differenza principale tra gli hibakusha (i sopravvissuti all’atomica) giapponesi e coreani sta nel modo in cui raccontano cos’hanno vissuto: mentre i primi cominciano quasi sempre ricordando il lampo di luce accecante seguito dal boato della deflagrazione, i secondi partono spiegando come mai quell’agosto 1945 si trovavano a Hiroshima e a Nagasaki.
L’ha notato Takashi Hiraoka, giornalista e due volte sindaco di Hiroshima negli anni novanta, che quarant’anni fa pubblicò un libro sulle vittime coreane dei bombardamenti basato su decine di interviste. Secondo Hiraoka, era proprio quella differenza a definirle. A Oslo uno dei rappresentanti della Hindakyō che ha ritirato il Nobel per conto dell’associazione ha menzionato “gli hibakusha coreani che dopo i bombardamenti sono tornati a casa”. Non era una cosa scontata. Per decenni la stessa Hidankyō ha emarginato le vittime coreane per insistere sull’unicità dell’esperienza vissuta dal popolo giapponese, un atteggiamento definito “nazionalismo della bomba atomica”.
Dopo la resa del Giappone, la maggior parte dei coreani che si trovavano nell’arcipelago tornarono in Corea. Qualche migliaio di quelli che si trovavano nelle due città bombardate decise di restare, diventando zainichi (coreani residenti in Giappone da generazioni) hibakusha, vittime escluse dal sistema di cure e sostegno ottenute dalla Nihon Hindankyo per quelle giapponesi. A questi sopravvissuti e ai loro discendenti che hanno ereditato le conseguenze delle radiazioni è dedicato un libro tradotto ora in inglese della studiosa di diritti umani Yuko Takahashi, che Tammy E. Kim recensisce nell’ultimo numero del New Yorker. In Korean nuclear diaspora: redress movements of Korean atomic-bombing victims in Japan, Takahashi ricostruisce anche la complessa geografia delle associazioni dei sopravvissuti, che una volta finita la guerra si trovarono alle prese con una nazione divisa in due.
La Mindan raccoglieva le vittime coreane originarie della parte meridionale della penisola, pro-Seoul, la Choren (oggi Soren) i fedeli al regime di Kim Il-sung. La spaccatura, quando non l’antagonismo, non giovarono alla causa degli zainichi hibakusha, ma andò ancora peggio ai molti che decisero di tornare in Corea, dove non si sapeva come curarli e dove ai bombardamenti atomici che portarono Tokyo alla resa si dava il merito della liberazione della penisola dal giogo coloniale. A Nagasaki a ricordare gli hibakusha coreani ci sono tre monumenti distinti (due voluti dalla Mindan, uno da un gruppo di attivisti giapponesi). Mentre i negoziati tra la Mindan e la Soren per un monumento comune sono cominciati trent’anni fa e sono ancora in corso.
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