Il 27 maggio migliaia di palestinesi si sono precipitati verso un centro di distribuzione di aiuti a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, alla disperata ricerca di cibo dopo essere stati affamati per mesi, e sono stati accolti dai colpi d’arma da fuoco sparati da guardie private in preda al panico. Quella a cui il mondo ha assistito non è stata una tragedia, ma una rivelazione: la fine dell’illusione che gli aiuti umanitari esistano per servire l’umanità e non l’impero.

Presentato da Israele e Stati Uniti come un modello di dignità e neutralità, Tal al Sultan, il nuovo centro della Gaza humanitarian foundation (Ghf), è precipitato nel caos poche ore dopo l’apertura. Ma non è stata una disgrazia. È stata la logica conseguenza di un sistema progettato non per nutrire gli affamati, ma per controllarli e contenerli. Quando i palestinesi di Gaza – costretti ad aspettare per ore sotto il sole cocente, confinati all’interno di una recinzione metallica – hanno cominciato a spingere per la disperazione, è scoppiato il caos. Le guardie, assunte da un’azienda sostenuta dagli Stati Uniti, hanno aperto il fuoco nel tentativo di fermare la calca. Per portarle via sono arrivati elicotteri israeliani, che hanno sparato colpi di avvertimento sulla folla.

La Ghf aveva promesso un’iniziativa rivoluzionaria: aiuti liberi dalla corruzione di Hamas, dalla burocrazia delle Nazioni Unite e dalla confusione della società civile palestinese. Il risultato è stato un distillato di umanitarismo coloniale: gli aiuti come strumento di controllo, disumanizzazione e umiliazione, dispensati da uomini armati sotto l’occhio attento dell’esercito occupante.

Il problema della Ghf non è solo il modo in cui ha tentato di distribuire gli aiuti, ma anche la natura di questi aiuti: umilianti in termini di qualità e quantità. Non sfamavano, figurarsi se potevano restituire un minimo di dignità. Le scatole contenevano a malapena le calorie necessarie per impedire la morte immediata, una crudeltà calcolata per tenere in vita le persone con lo stomaco mezzo vuoto, mentre i loro corpi si consumano lentamente. Nessun vegetale per l’apporto di nutrienti. Niente semi da piantare. Nessun attrezzo per ricostruire. Solo cibi processati, studiati per tenere una popolazione in condizione di crisi permanente, eternamente dipendente dalla pietà dei suoi distruttori.

Somiglianze ed eufemismi

Le foto del centro di distribuzione – che mostrano esseri umani disperati, logorati dalla fame, dalle malattie e dalla guerra, radunati dentro recinzioni come bestie, in attesa di briciole, con le armi puntate addosso – ricordano le immagini di sofferenza e morte dei campi di concentramento del secolo scorso. La somiglianza non è casuale. I “centri di distribuzione degli aiuti” di Gaza sono i campi di concentramento della nostra epoca, progettati, come i loro predecessori europei, per gestire e contenere popolazioni indesiderate piuttosto che aiutarle a sopravvivere.

Jake Wood, direttore esecutivo della Ghf, si è dimesso pochi giorni prima del collasso dell’operazione, dichiarando di non ritenere più che la fondazione potesse rispettare i “princìpi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza”. Un esempio di eufemismo burocratico. Quello che Wood voleva dire – anche se non poteva farlo esplicitamente – è che questo programma è una menzogna. Un’iniziativa per distribuire aiuti a un popolo occupato e assediato non potrà mai essere neutrale se si coordina con l’esercito occupante. Non può essere imparziale se esclude dalle decisioni le persone sotto occupazione. Non può essere indipendente se per la sua sicurezza si deve affidare all’esercito responsabile della carestia.

L’umiliazione andata in scena era in preparazione da mesi. Dei 91 tentativi fatti dall’Onu tra il 6 ottobre e il 25 novembre 2024 per consegnare gli aiuti nel nord della Striscia, 82 sono stati vietati e nove ostacolati. Michael Fakhri, relatore speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione, già a settembre aveva accusato Israele di condurre una “campagna per portare alla fame” i palestinesi a Gaza. Tra il 19 e il 23 maggio solo 107 camion di aiuti sono entrati a Gaza, dopo più di tre mesi di blocco. Durante il cessate il fuoco temporaneo, durato quasi due mesi tra gennaio e marzo, erano necessari tra i cinquecento e i seicento camion al giorno per soddisfare i bisogni di base. Servirebbero 40mila camion per affrontare la crisi in maniera significativa. Almeno trecento persone, tra cui molti bambini, sono già morte di fame.

Ma la distorsione degli “aiuti” e la trasformazione dell’“umanitarismo” in un meccanismo di controllo non sono cominciate il 7 ottobre 2023. I palestinesi vivono questa menzogna degli “aiuti” da 76 anni, da quando la Nakba li ha trasformati da un popolo in grado di provvedere a se stesso a uno che implora per le briciole. Prima del 1948 la Palestina esportava agrumi in Europa, produceva saponi commerciati in tutta la regione e fabbricava vetri che riflettevano il sole mediterraneo. I palestinesi non erano ricchi, ma stavano bene. Producevano quello che mangiavano, si costruivano le case, davano un’istruzione ai loro figli.

La Nakba non ha solo trasferito con la forza 750mila palestinesi, ha anche orchestrato il passaggio dall’autosufficienza alla dipendenza. Nel 1950 gli ex contadini erano ormai costretti a fare la fila per le razioni dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi, mentre i loro uliveti nutrivano i figli di altri. Non era uno spiacevole effetto collaterale della guerra, ma una strategia deliberata: spezzare l’indipendenza dei palestinesi e sostituirla con un bisogno permanente di beneficenza. La beneficenza, a differenza dei diritti, può essere revocata, e a differenza della giustizia comporta delle condizioni.

Gli Stati Uniti, il principale donatore dell’Unrwa, forniscono la maggior parte delle armi che stanno distruggendo Gaza. Non è una contraddizione, è la logica dell’umanitarismo coloniale: finanziare la violenza che crea il bisogno, poi finanziare gli aiuti che ne gestiscono le conseguenze. Mantenere in vita le persone, ma non consentirgli mai di vivere. Dare assistenza, ma mai giustizia. Concedere aiuti, ma mai la libertà. La Ghf è il perfezionamento di questo sistema. Aiuti consegnati da guardie private, coordinati con le forze di occupazione, distribuiti in zone militarizzate pensate per aggirare le istituzioni che i palestinesi hanno creato per provvedere a se stessi. L’umanitarismo come strumento controinsurrezionale, la beneficenza come controllo coloniale; e quando l’oscena operazione collassa, com’era prevedibile, ci dicono che è colpa dei palestinesi se sono disperati.

Non solo calorie

I palestinesi sanno che nessuna iniziativa di solidarietà sostenuta da Israele o dagli Stati Uniti potrà aiutarli davvero. Sanno che non si può vivere dignitosamente con pacchi distribuiti in strutture simili a campi di concentramento. La karamah – parola araba per dignità, che indica anche onore, rispetto, capacità di agire – non può essere lanciata dagli aerei o distribuita ai checkpoint. I palestinesi sono già provvisti di karamah, nel loro tenace rifiuto di scomparire, nell’ostinazione a rimanere umani nonostante gli sforzi per ridurli a beneficiari di elemosine pensate per mantenerli a stento in vita.

Quello di cui hanno bisogno sono veri aiuti umanitari, che forniscano non solo calorie, ma una possibilità di futuro.

Una vera assistenza umanitaria abbatterebbe l’assedio, non ne gestirebbe le conseguenze. Perseguirebbe i criminali di guerra, non darebbe alle loro vittime pasti che le fanno morire lentamente. Restituirebbe ai palestinesi le loro terre, non cercherebbe di compensarne il furto con cibi processati distribuiti all’interno di gabbie.

Finché la comunità internazionale non capirà questa semplice verità, Israele e i suoi alleati continueranno a mascherare da assistenza gli strumenti del dominio. E noi continueremo per anni a vedere scene tragiche come quelle di Rafah. Quello che è capitato non è stato un fallimento degli aiuti. È stato il successo di un sistema progettato per disumanizzare, controllare e cancellare. I palestinesi non hanno bisogno di ricevere altre fasciature dalle mani che li hanno accoltellati. Hanno bisogno di giustizia e libertà. Hanno bisogno che il mondo la smetta di confondere la macchina dell’oppressione con l’assistenza umanitaria, e cominci a vedere la loro liberazione come l’unica via per la dignità, la pace e la vita. ◆ fdl

Ultime notizie
Stragi annunciate

◆ Il 3 giugno 2025 la difesa civile palestinese ha affermato che almeno 27 persone sono state uccise dall’esercito israeliano vicino a un centro per la distribuzione di aiuti umanitari nel sud della Striscia di Gaza. Due giorni prima un’altra strage simile aveva causato 31 morti e 176 feriti. Secondo la ricostruzione della difesa civile, le forze israeliane hanno sparato con carri armati e droni contro migliaia di civili che si erano radunati nei pressi della rotonda di Al Alam, nella zona di Al Mawasi, a nordovest di Rafah. La rotonda si trova a circa un chilometro da un centro per la distribuzione di aiuti gestito dalla Gaza humanitarian foundation (Ghf), una fondazione sostenuta da Israele e dagli Stati Uniti, e contestata dalle Nazioni Unite e da molte ong. L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto il fuoco contro “alcune persone sospette”. L’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Volker Türk, ha definito “crimini di guerra” questi attacchi israeliani contro i civili.

◆ Il 31 maggio Hamas ha dato la sua risposta a un piano di tregua nella Striscia di Gaza presentato dall’inviato degli Stati Uniti in Medio Oriente, Steve Witkoff, che l’ha definita “inaccettabile”. Il piano statunitense, che Israele avrebbe accettato, prevede una tregua di sessanta giorni e la consegna immediata da parte di Hamas di cinque ostaggi vivi e nove morti in cambio del rilascio di prigionieri palestinesi, con un secondo scambio in seguito. Hamas ha invece proposto di restituire dieci ostaggi vivi e diciotto morti, ma ha chiesto garanzie per un cessate il fuoco permanente e il ritiro completo d’Israele da Gaza.

◆ Il 1 giugno è salpata da Catania un’imbarcazione della Freedom flotilla coalition diretta a Gaza con l’obiettivo di rompere l’assedio e portare aiuti umanitari. Oltre all’equipaggio, a bordo ci sono dodici persone, tra cui l’ambientalista svedese Greta Thunberg, l’attore irlandese Liam Cunningham e l’eurodeputata palestinese-francese Rima Hassan.
Afp, Reuters


Ahmad Ibsais è uno studente di giurisprudenza palestinese-statunitense. È poeta e autore della newsletter State of siege.

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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati