Nel primo trimestre del 2025 il pil svizzero ha registrato un’accelerazione superiore alle previsioni degli esperti: l’economia elvetica è cresciuta dello 0,8 per cento rispetto all’ultimo trimestre del 2024, quando era salita dello 0,6 per cento. Secondo i dati presentati il 2 giugno dalla Segreteria di stato per l’economia (Seco), alla crescita ha contribuito soprattutto il settore dei servizi, ma anche l’industria ha fatto segnare un’evoluzione positiva.
Ha fatto la parte del leone il comparto chimico-farmaceutico, con un sonoro +7,5 per cento, alimentato dalle forti esportazioni. Gli altri settori industriali hanno risentito maggiormente della congiuntura internazionale poco favorevole, ma nel complesso l’industria manifatturiera è cresciuta del 2,1 per cento. I servizi hanno segnato un aumento dell’1,4 per cento. Più contenuta la crescita dei servizi finanziari: 0,5 per cento.
Sui risultati hanno pesato le esportazioni di beni, che sono aumentate del 5 per cento. Sono state decisive in particolare quelle verso gli Stati Uniti, dove con ogni probabilità le vendite sono cresciute per anticipare i dazi voluti dal presidente Donald Trump. Non hanno influito solo i prodotti farmaceutici. È il caso dell’oro, ma anche degli orologi, scrive il Wall Street Journal. Ad aprile la Svizzera ne ha esportati per un valore complessivo di 3,1 miliardi di dollari, segnando una crescita del 18 per cento. Nei primi quattro mesi dell’anno l’aumento è stato del 4 per cento.
Questi risultati sono stati favoriti in gran parte dalle vendite negli Stati Uniti, che ad aprile sono salite del 149 per cento. Senza questo mercato, le esportazioni di orologi avrebbero registrato un calo del 6,4 per cento. Il risultato statunitense ha infatti compensato il rallentamento delle vendite in altri paesi, in particolare in Cina.
Anche sulla Svizzera incombono i dazi di Trump, che il 2 aprile aveva deciso per la Confederazione elvetica una tariffa del 31 per cento, poi sospesa fino agli inizi di luglio. Secondo un sondaggio condotto ad aprile tra i dirigenti di 519 aziende svizzere dal quotidiano Neue Zürcher Zeitung e dalla scuola di alta specializzazione Kalaidos, le piccole e medie imprese svizzere non sono mai state così pessimiste: quasi il 60 per cento delle imprese intervistate ritiene che le prospettive di crescita sono peggiorate a causa della politica commerciale di Trump.
In queste settimane, tuttavia, il governo federale svizzero è stato forse l’unico a non aver preso alcuna contromisura ai dazi statunitensi. Per di più bisogna considerare che dal 1 gennaio 2024 Berna ha abolito tutti i dazi industriali e che il 99 per cento dei beni provenienti dagli Stati Uniti può essere importato nel paese senza alcun aggravio alla dogana.
Negli ultimi anni la Svizzera è riuscita a imporsi come una delle economie industrializzate più ricche del mondo senza contare su aiuti dello stato né svalutazioni monetarie. Da mezzo secolo il franco svizzero, sottolinea il Financial Times, è una delle valute con le migliori prestazioni. Mentre si parla degli Stati Uniti di Trump che vogliono indebolire il dollaro per favorire il ritorno dell’industria manifatturiera, nel cuore dell’Europa c’è un piccolo paese che, nonostante una moneta fortissima, ha un’industria competitiva a livello mondiale.
Il settore manifatturiero svizzero contribuisce al 18 per cento del pil nazionale, una delle quote più alte tra le nazioni ricche. Almeno metà delle esportazioni è costituita da prodotti high tech, più del doppio rispetto agli Stati Uniti. Il surplus generato dal commercio estero (52 miliardi di dollari nel 2024) permette ampi investimenti, anche oltreconfine: attualmente il paese registra un’eccedenza netta di investimenti internazionali pari a più del 100 per cento del suo pil. Dagli anni novanta a oggi la Svizzera è riuscita ad attirare investimenti stranieri diretti per mille miliardi di dollari.
Al contrario di quello che molti ancora credono, la Svizzera nono vive solo dei suoi servizi finanziari, spesso sospettati di aiutare persone e aziende che hanno bisogno di nascondere i propri soldi. Com’è possibile? Da decenni ha deciso di puntare sull’offerta di servizi e manufatti di alta qualità, per i quali i consumatori sono disposti a pagare qualcosa in più rispetto a quelli della concorrenza.
Da 14 anni il paese è in testa alla classifica del Global innovation index, l’indice realizzato dalle Nazioni Unite per individuare le economie più innovative: la confederazione è all’avanguardia sia per gli investimenti nell’innovazione, compresi quelli nell’istruzione avanzata, sia per i rendimenti di questi investimenti. La produttività e, di conseguenza, gli stipendi di chi lavora in Svizzera sono altissimi: ogni ora lavorata genera più di cento dollari di pil, il dato più alto delle venti principali economie mondiali.
Questo modello è accompagnato da una disciplina del bilancio federale rigidissima: la Svizzera registra regolarmente avanzi primari; gli interessi sul debito pubblico sono bassissimi e ultimamente sono diventati addirittura negativi; alla fine del 2024 il rapporto tra il debito pubblico e il pil era intorno al 17 per cento. L’invecchiamento demografico, problema che riguarda anche la Svizzera come molti altri paesi sviluppati, è stato affrontato ricorrendo all’immigrazione, soprattutto ai lavoratori frontalieri provenienti dalle regioni italiane vicine al confine. Come ha osservato l’economista Riccardo Trezzi, “dal 2000 a oggi in Svizzera quasi il 60 per cento dei posti di lavoro creati sono andati a immigrati”.
All’orizzonte, però, si staglia lo spettro del nazionalismo, che di questi tempi non risparmia neanche il pacifico paese alpino. Come scrive la rivista online Republik, gli umori del popolo cominciano dare segni d’insofferenza, di cui tentano di approfittare i populisti di destra dell’Unione democratica di centro (Udc), seguiti però anche da formazioni moderate come il Partito radicale liberale. L’obiettivo non è solo l’immigrazione, ma in generale il modello economico, che secondo molti concede troppo alle grandi imprese e poco ai cittadini.
Il 18 maggio, per esempio, i cittadini di Zurigo hanno respinto con un referendum una proposta per ridurre le imposte sugli utili aziendali, temendo un buco di 350 milioni di franchi nei conti pubblici. L’Udc, invece, vuole indire una consultazione con cui stabilire il limite massimo di dieci milioni di persone alla popolazione svizzera. Nel mirino del risentimento popolare ci sono anche i tagli giudicati eccessivi al welfare: un anno fa un’iniziativa popolare ha permesso di introdurre la tredicesima mensilità alla pensione minima.
Tutti questi episodi, osserva Republik, sono un indice del fatto che molti svizzeri vorrebbero vedere più ricchezza distribuita negli strati meno abbienti della popolazione: “Un nuovo modello di questo tipo significa anche tasse più alte per i grandi patrimoni e i gruppi industriali e un allentamento dei vincoli del bilancio federale”. In questo modo, dicono alcuni, lo stato “avrebbe più risorse da investire nella sicurezza, nella sanità, nell’assistenza ai più deboli, nelle scuole, nell’edilizia abitativa e anche nella lotta alla crisi climatica”. Si spera prima che il benessere della Svizzera s’infranga contro il muro delle ricette populiste e nazionaliste.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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