Questo articolo è stato pubblicato il 18 aprile 2014 nel numero 1047 di Internazionale.

È una serata calda nel quartiere di Leffert Gardens, a Brooklyn, e sei madri che si conoscono per i soliti motivi (lavoro, bambini, vita di quartiere) sono riunite intorno a un tavolo di cucina e parlano dei figli adolescenti. Beth, un’insegnante e la più giovane del gruppo, accenna al fatto che il suo Carl, quindici anni appena compiuti, negli ultimi tempi “usa la sua intelligenza per fare danni”.

Le altre smettono di chiacchierare e si girano a guardarla. “Invece di pensare a prendere buoni voti, si preoccupa di come sbarazzarsi dell’amministratore”, spiega. L’amministratore è il software che Beth ha installato per controllare l’uso del computer. “Poi ho visto che ha cercato tre volte su internet ‘puttana russa’”. Almeno così mi è sembrato di capire quando ho riascoltato la registrazione della conversazione per scrivere questo articolo.

Ma Beth mi ha spiegato che mi sbagliavo. Era: “Tripla penetrazione di puttana russa”. Samantha, anche lei insegnante, interviene proprio in quel momento con la violenza di una palla di cannone. “Togli di mezzo quel maledetto computer, Beth”, urla. “Toglilo!”.

“Ma deve usarlo per forza! A scuola gli danno del materiale online”.
“Allora metti un computer grande in cucina”, suggerisce Deirdre, la padrona di casa.
“È quello che ho fatto”, risponde Beth. “L’ho messo in salotto”.
“Ma se perde l’anno”, interviene Samantha, “come finirà?”.
“Non perderà l’anno”, dice Beth. Poi fa una pausa per riflettere. “Però quando ho telefonato alla sua terapista e le ho detto che avevo scoperto tutti quei video porno sul computer, non aveva idea di cosa fare”.

“Sì, ci sono passata anch’io”, dice improvvisamente Gayle, una supplente che finora ha parlato poco. Tutte le teste si voltano verso di lei. “Anche Mae”, che è sua figlia e la migliore amica della figlia maggiore di Samantha, Calliope, “è stata in terapia. Ci ho speso un anno di stipendio e lei non ha mai parlato alla dottoressa del suo vero problema, cioè che si tagliava”.

A questo punto Samantha si arrende. Punta i gomiti sul tavolo e poggia la fronte tra le mani. “Siamo tutte sulla stessa barca”, commenta. “Ripetiamo tutte le stesse storie”. Alza lo sguardo verso le altre. “Voglio dire. Io ho storie di polizia”. Storie di polizia? Per tutto il tempo, mentre Samantha e le sue amiche parlavano, avevo creduto che tutte queste disavventure non riguardassero suo figlio e che fosse perfino un po’ scandalizzata. Invece era esattamente il contrario: si era sentita coinvolta fin dall’inizio.

Quando i futuri genitori immaginano le gioie che i figli gli daranno, difficilmente pensano agli anni dell’adolescenza. Secondo una celebre battuta di Nora Ephron, l’unico modo per sopravvivere all’adolescenza dei figli è prendersi un cane, “almeno a casa qualcuno sarà contento di vederti”. Addio primi sorrisi e giochi a nascondino: al loro posto ci sono gli allenamenti di hockey alle 5 del mattino, le nuove avventure della trigonometria (secante, cosecante, ma che è?) e le telefonate nel cuore della notte per farsi riportare a casa. E questo quando i figli sono bravi ragazzi.

Ma è proprio qui il punto. Anche i figli di quelle mamme intorno al tavolo di cucina sono bravi ragazzi. Quasi tutti frequentano ottime università o scuole impegnative, tutti hanno molti interessi e grandi capacità. Tutti, a vederli, appaiono rispettosi e sicuri di sé. Non sono il genere di ragazzi che si fanno bocciare, scappano di casa o vengono espulsi da scuola. Eppure i loro genitori stanno quasi impazzendo. Questo fa sorgere un interrogativo: è possibile che l’adolescenza sia particolarmente difficile – e a volte segni una crisi – non tanto per i ragazzi e le ragazze quanto per gli adulti che li crescono?

Pleasant Grove, Utah, 2012. (Brian Shumway, Redux/Contrasto)

Laurence Steinberg, psicologo della Temple university e una delle maggiori autorità degli Stati Uniti in materia di pubertà, pensa che ci siano forti elementi a favore di questa tesi. “Non mi pare che l’adolescenza sia un’età difficile per i ragazzi”, spiega. “La maggior parte di loro sembra attraversare la vita in una sorta di piacevole annebbiamento”. Questo non esclude che molti ogni tanto stiano male e che alcuni soffrano sul serio. È tutto vero. Ma è anche vero che gli adolescenti vivono intensamente altre esperienze importanti: cotte, rapporti sentimentali con tutti i rischi che comportano, esperimenti con la loro identità. I genitori non possono fare altro che digerire questi cambiamenti e adeguarsi quando i figli si allontanano. “Se ascolti i loro discorsi, il punto è sempre: ‘Mio figlio adolescente mi fa impazzire’”, dice Steinberg.

Nell’edizione 2014 del suo manuale più famoso, Adolescence, Steinberg smonta il mito delle sofferenze adolescenziali con ancora più energia. “I cambiamenti ormonali della pubertà”, scrive, “hanno un effetto modesto sul comportamento dei ragazzi. Le ribellioni durante l’adolescenza sono l’eccezione, non la norma”.

Ma per i genitori la situazione è molto più complicata. Nel 1994 Steinberg ha pubblicato Crossing paths, una delle poche analisi approfondite su come i genitori vivono il passaggio alla pubertà dei loro primogeniti, basata su uno studio di oltre duecento famiglie. Il 40 per cento dei genitori aveva cominciato ad avere problemi di salute mentale quando il primo figlio era entrato nell’adolescenza. Gli intervistati ammettevano di sentirsi rifiutati e denunciavano un calo dell’autostima, un peggioramento della vita sessuale e un aumento dei sintomi fisici di malessere e tensione.

Viene la tentazione di liquidare questi elementi come una conseguenza della mezza età piuttosto che della presenza di adolescenti in casa. Ma stando ai dati di Steinberg non è così. “La situazione psicologica di un adulto è molto più prevedibile se messa in relazione con lo sviluppo psicologico del figlio piuttosto che con l’età”.

Sotto la superficie

L’esperienza di un genitore con figli adolescenti può essere complicata da molti fattori. Il primo è l’essere divorziati (per le coppie sposate l’ingresso dei figli nella pubertà è molto più facile). Il secondo è avere lo stesso sesso del figlio (il conflitto tra madre e figlia è particolarmente aspro).

Steinberg ha inoltre riscontrato che l’adolescenza è difficile soprattutto per i genitori che non hanno interessi esterni in grado di assorbire la loro attenzione, come un hobby o un lavoro che li appassiona. È come se il figlio, lasciando il centro della scena, spostasse i riflettori sulla vita dei genitori, rivelando così se sono appagati o meno. Certo, tutti i figli sono potenzialmente in grado di smascherare problemi che i genitori non sanno individuare o non ammettono. Però sembra che gli adolescenti abbiano questo effetto molto più dei bambini. E allora bisogna chiedersi perché.

Ci sono molte spiegazioni. Forse la principale è di carattere storico: l’adolescenza è un’idea moderna. Sì, è anche un fenomeno fisiologico specifico, accompagnato da trasformazioni biologiche. Ma è stata “scoperta” in un’epoca recente (precisamente nel 1904 dall’educatore Stanley Hall), che si dà il caso coincida con il momento in cui gli Stati Uniti approvarono una serie di leggi per tutelare i giovani: per la prima volta i genitori erano obbligati a proteggere e sostenere i figli più grandi, invece di contare sullo stipendio che i figli potevano portare a casa. E dopo aver osservato i loro ragazzi a distanza ravvicinata per lunghi periodi, i genitori conclusero che gli adolescenti attraversavano un terribile periodo di “crisi e tensione”. Come spiegare altrimenti il caos e l’irrequietezza di cui erano testimoni?

Pleasant Grove, Utah, 2014. (Brian Shumway, Redux/Contrasto)

Potrebbe esserci anche una spiegazione più semplice, e cioè che l’infanzia moderna, totalmente protetta, in realtà crea maggiori problemi per i genitori quando i figli crescono. Tenere i ragazzi protetti e disciplinati mentre biologicamente stanno diventando adulti e aspirano all’autonomia può avere conseguenze estenuanti. La casa diventa un luogo di tensione continua, in cui tutti cercano di capire se gli adolescenti sono adulti o bambini. A volte il padre pensa di avere una risposta e la madre ne ha un’altra, a volte i genitori sono d’accordo ma i figli no. Qualunque sia la risposta, la questione genera stress, e spesso a soffrire sono i genitori più che i figli.

Anche se porta la tuta da ginnastica, si può ancora riconoscere in Samantha la hippy di un tempo: ha splendidi capelli color argento che ha appena sciolto dalla coda di cavallo dopo aver fatto jogging. Siamo seduti nella sua cucina a Ditmas park, a Brooklyn. Samantha e suo marito Bruce, anche lui insegnante, hanno comprato una casa qui diciannove anni fa, quando i prezzi erano ancora bassi rispetto agli standard della città e il quartiere più vario.

Samantha è afroamericana. Bruce, a detta della figlia Calliope, è “il tipo più bianco che esista”. Calliope è un’autentica bellezza, ha vent’anni e in questi giorni è in vacanza dal college. Ci raggiunge al tavolo della cucina.

“Che ciambella vuoi?”, chiede Samantha.
Calliope la guarda con un misto di irritazione e di affetto. “Mmmh, mi conosci?” (come dire: quante volte abbiamo mangiato le ciambelle insieme?).
Samantha alza gli occhi al cielo, ne prende una e la taglia a pezzi.

Forse perché entrambe hanno una personalità forte, Samantha e la figlia litigavano spesso quando Calliope viveva ancora in famiglia. A casa di Deirdre, Samantha ci aveva raccontato di una lite particolarmente dolorosa con la figlia, ma senza precisare come era cominciata. Oggi glielo chiedo. Samantha non è neppure sicura di ricordarselo, ma Wesley, il figlio di 16 anni che ci ha raggiunto nel frattempo, lo sa benissimo e interviene subito.

“Calliope doveva fare un tema per il giorno dopo e una tesina per il college che doveva essere pronta entro un mese. E tu”, dice guardando la madre, “volevi che lavorasse alla tesina per il college, mentre tu”, prosegue rivolgendosi alla sorella, “volevi lavorare al tema. Perciò a un certo punto hai detto: ‘Mamma, lasciami in pace, devo fare il tema stasera’”. Wesley racconta la storia con una imparzialità ammirevole. “Mentre tu, mamma, insistevi che doveva fare la tesina”.

Samantha aspetta. Ma a quanto pare la storia è tutta qui. “Hai continuato a camminare avanti e indietro per parecchio tempo”, dice Wesley. “E poi è arrivato papà.”
Samantha sembra stupita. “Ma è una stupidaggine! Perché avrei dovuto impedirle di fare i compiti per il giorno dopo?”.
Wesley risponde di nuovo con tatto: “Be’, oggi capisci il suo punto di vista, ma all’epoca volevi che ti stesse a sentire” .

Questa discussione tra madre e figlia non aveva un motivo importante. Era quello che ribolliva sotto la superficie ad aver fatto infuriare Samantha. Lei aveva le sue idee sulle priorità della figlia, ma quelle della figlia erano diverse, e Samantha sentiva che la sua autorità si stava indebolendo. E poi c’era una punta di derisione nelle risposte di Calliope, e Samantha non sopporta essere presa in giro.

Lake Tyler, Texas, 2014. (Brian Shumway, Redux/Contrasto)

“Le parolacce non mi danno fastidio”, dice. “È il tono”.“Come quando uno ti dice ‘rilassati’”, aggiunge Calliope. “Oppure ‘stai calma’”.
Samantha scatta in piedi. “Sì, cavolo”. Comincia a camminare avanti e indietro. “È così sprezzante. Un po’ come dire: ‘Tu non conti niente’”.

L’opinione comune vuole che per i genitori l’adolescenza sia una ripetizione della prima infanzia, quando c’è un bambino capriccioso, perennemente affamato e in rapida crescita, che a volte appare precoce e altre volte egoista. Ma per molti versi all’arrivo della pubertà le difficoltà delle madri e dei padri sono l’opposto. Quando i bambini sono piccoli, tutto quello che i genitori desiderano è un po’ di tempo e spazio per sé. Quando diventano adolescenti, desiderano che apprezzino di più la loro compagnia e che li trattino quanto meno con rispetto.

Ciò che rende ancora più duro questo passaggio è il violento contrasto con il periodo ragionevolmente tranquillo che lo precede. Il Blackwell handbook of adolescence, una raccolta di saggi di psicologia del 2003, si spinge addirittura a sostenere che l’adolescenza è “seconda solo all’infanzia” per lo sconvolgimento che genera, capace di destabilizzare dinamiche, rituali e una salda gerarchia che resta in vigore per gran parte della scuola elementare. Dopo essersi sentiti necessari per anni, e aver vissuto l’amore dei figli come quasi inseparabile da questo bisogno, madri e padri scoprono che è impossibile ottenere l’attenzione dei loro ragazzi.

Ho trovato un dettagliato studio del 1996 che quantificava la diminuzione del tempo passato in famiglia dagli adolescenti. I ricercatori avevano seguito 220 ragazzi di famiglie operaie e borghesi dei sobborghi di Chicago nel periodo dalla prima alla quinta elementare, e poi di nuovo durante gli anni del liceo. A ogni intervallo, gli studiosi avevano passato una settimana cercando a caso questi ragazzi con un cercapersone e chiedendogli di raccontare cosa stavano facendo.

Quello che scoprirono, 16.477 bip più tardi, è che tra la fine delle elementari e l’ultimo anno delle superiori la percentuale di tempo da svegli che i ragazzi passavano con le famiglie scendeva dal 35 al 14 per cento. Un genitore deve avere un ego molto forte per resistere a questo allontanamento. Perché innanzitutto significa cedere parte del proprio potere ai figli: decisioni che un tempo rientravano nella propria sfera di competenza passano a loro. E poi significa retrocedere un po’, accettando il fatto che i figli abbiano rimodellato la loro vita senza mettere al centro i genitori e gli obiettivi di mamma e papà.

“L’adolescente”, scrive lo psicanalista britannico Adam Phillips, “è una persona che cerca di liberarsi da una setta”. Da protettori dei ragazzi i genitori si trasformano nei loro carcerieri, e si sentono ripetere continuamente che questo è un vero strazio.

Ask the children, di Ellen Galinsky, un’indagine brillante su più di mille bambini dalla terza elementare alla fine delle superiori, ci dà la misura di quanto siano critici i ragazzini nei confronti della famiglia. A un certo punto Galinsky chiede ai suoi intervistati di dare un voto ai genitori. Su quasi tutto, i voti dei ragazzi dalla seconda media alla fine del liceo erano molto più bassi di quelli assegnati dai bambini più piccoli.

L’ingratitudine è una delle cose che provocano più sofferenza nell’educazione dei figli. Non tutti i ricercatori ritengono che gli adolescenti siano più ribelli dei bambini, ma quasi tutti sono d’accordo sul fatto che si ribellano con maggiore abilità e veemenza, e che le discussioni più accese con i genitori si registrano nei primi anni delle superiori.

Nancy Darling, una psicologa dell’Oberlin college, ci offre un’analisi ricca di sfumature su cosa esattamente renda così aspra la lotta degli adolescenti per l’autonomia. Quasi tutti i ragazzi, osserva, non hanno nulla da obiettare quando i genitori cercano di insegnargli princìpi morali o convenzioni sociali. Non fare a botte, sii gentile, pulisci, chiedi permesso: tutto questo è considerato legittimo. Lo stesso vale per le questioni di sicurezza: allacciarsi le cinture in auto non equivale a una violazione di confine.

Quello che i ragazzi contestano sono i tentativi di regolamentare le preferenze più personali, le questioni di gusto: la musica che ascoltano, i divertimenti che scelgono, le compagnie che frequentano. Il problema, dice Darling, è che durante l’adolescenza le preferenze cominciano a sconfinare in questioni di moralità e sicurezza, e spesso diventa impossibile stabilire una linea di demarcazione. Quel ragazzino che vedi sempre? Non mi piace come guida e la roba che ti fa conoscere. I giochi che fai? Non mi piace tutta quella violenza e quel modo disgustoso di considerare le donne. Ma il punto centrale, forse, è che essere la guardia del corpo di un adolescente offre il comodo vantaggio di tenersi un figlio vicino proprio quando sta cercando di allontanarsi.

Violazioni di confine

Mentre Wesley parlava dei conflitti tra la madre e la sorella, io pensavo di poter riconoscere il ruolo che si era autoassegnato all’interno della famiglia. Era il mediatore e il diplomatico, il ragazzino che si sforzava di non creare problemi.

Eppure è stato Wesley, il sensibile Wesley così pieno di tatto e di talento da riempire di orgoglio qualunque genitore (suona la batteria, il piano e la chitarra, e tutti bene), a essere trascinato a casa dalla polizia alle quattro del mattino. Lui e un suo amico avevano passato la notte a lanciare uova contro le finestre dei vicini. Le prime volte, per uscire di nascosto, si era limitato ad aspettare che i genitori dormissero. Ma dopo un po’ i suoi metodi erano diventati più complessi.

“Ho cominciato a saltare dal tetto”, racconta come se fosse la cosa più normale del mondo. “Così ero sicuro che non potevate scoprirmi”.
“Aspetta”, fa Samantha, che ha la classica reazione a scoppio ritardato. “Quale tetto?”.
“Il tetto. Uscivo dalla finestra di camera mia e saltavo dal tetto. Poi mi arrampicavo per tornare a casa”.

Pleasant Grove, Utah, 2013. (Brian Shumway, Redux/Contrasto)

Samantha lo fissa senza parlare. Gli adolescenti a volte possono sembrarci degli adulti precoci, ma un attimo dopo ci rendiamo conto che non lo sono. Le loro incursioni nell’indipendenza possono facilmente sconfinare in eccessi. Questo comportamento ha precise componenti neuronali. Negli ultimi vent’anni i ricercatori hanno scoperto che durante l’adolescenza la corteccia prefrontale – la regione del cervello che governa tanta parte delle nostre funzioni superiori, compresa la capacità di ragionare e controllare gli impulsi – subisce ancora dei cambiamenti strutturali. A complicare le cose la dopamina, l’ormone che segnala il piacere, è straordinariamente attiva soprattutto durante la pubertà, e questo significa che gli adolescenti danno più valore degli adulti alla gratificazione che ottengono correndo dei rischi.

Da un punto di vista evolutivo, ha perfettamente senso che gli adolescenti siano più predisposti al rischio. Gli esseri umani hanno bisogno di incentivi per abbandonare il nido familiare. Lasciare la propria casa è pericoloso. Ma c’è un elemento storico da prendere in considerazione: forse gli adolescenti sarebbero meno inclini a saltare dai tetti se avessero modi più positivi e interessanti di esprimere la loro identità avventurosa.

Questa è la tesi avanzata dall’antropologa Margaret Mead negli anni sessanta: la vita protetta degli adolescenti moderni li ha privati del periodo in cui provavano a comportarsi “come se”, durante il quale potevano sperimentare con sicurezza il tipo di persona che sarebbero diventati.

Oggi gli adolescenti della classe media non devono affrontare situazioni pericolose, e quindi se le creano mentre continuano a vivere con i genitori. Spesso, purtroppo, questo significa che usano qualunque utensile riescano a trovare nel garage di famiglia, e in molti casi si tratta di oggetti poco idonei: automobili, motociclette, snowboard.

Jay Giedd, che studia il cervello degli adolescenti al National institute of mental health, l’ha sintetizzato molto bene: “Queste tendenze da età della pietra oggi interagiscono con le meraviglie moderne, che a volte non sono solo la fonte di aneddoti divertenti, ma possono davvero avere conseguenze a lungo termine”.

Di regola, ovviamente, forniscono semplicemente aneddoti. Quasi tutti i genitori lo intuiscono, ricordando le loro baldorie da adolescenti. Eppure è estremamente difficile per mamme e papà osservare da vicino questi comportamenti senza cercare di rimediare. Steinberg paragona gli adolescenti a macchine con acceleratori potenti e freni poco efficaci.

“I genitori si scontrano con i figli perché cercano di essere i loro freni”, dice. Provare a essere la corteccia prefrontale di qualcun altro è un’impresa azzardata. Ma la cultura moderna ci dice che questa è una delle principali responsabilità di un genitore.

“Qualche tempo fa è venuta fuori una questione su cui eravamo in forte contrasto”, dice Kate. “E io avevo ragione”.

Suo marito Lee, un uomo di 55 anni con i capelli grigi piuttosto lunghi, le lancia uno sguardo perplesso. “Non so neppure a cosa ti riferisci”.

“La festa da Paul”.
Lee trattiene il respiro. “Ma è dove…”.
“Fammi parlare, va bene? È una cosa che mi agita molto”.

Lee si trattiene e cede il campo. È un momento di tensione. Kate e Lee stanno insieme da 22 anni e il loro matrimonio è solido. Ma da quando il figlio e la figlia sono entrati nell’adolescenza, Kate ha notato un cambiamento nelle dinamiche coniugali. “C’è molta meno sintonia tra noi quando ci sono i ragazzi intorno”, aveva detto nella cucina di Deirdre. Stamattina Kate e Lee parlano di questa mancanza di sintonia, o almeno ci provano. È difficile.

“Se i ragazzi vanno a una festa a casa di qualcuno”, riprende Kate, “io voglio essere sicura che ci sia un genitore. Ma questa volta ho lasciato un po’ correre. E il suo amico ha mentito: ha detto ai genitori che sarebbe rimasto a dormire da qualcuno e ha invitato a casa tutta la classe. Ed è arrivata la polizia”.

E allora, chiedo, perché Kate e Lee hanno litigato? “Perché io sostenevo che non avremmo dovuto dargli il permesso di andare alla festa”, spiega Kate, “mentre Lee pensava che in fondo non fosse successo niente di grave”.

“E resta la mia opinione”, aggiunge Lee.
“Sbagli”, replica Kate. “Se uscissimo e ci fosse una festa e arrivasse la polizia, e la nostra casa fosse ridotta uno schifo, sarebbe un incubo. Non voglio che mio figlio faccia queste cose”.

Se gli adolescenti sono più combattivi, meno ubbidienti e schiacciati dalla compagnia degli adulti, è comprensibile che la tensione ricada sul matrimonio dei genitori. Questi conflitti non sono inevitabili e scontati in partenza. Ma, nell’insieme, i ricercatori hanno concluso che i livelli di soddisfazione coniugale tendono a diminuire davvero quando il primo figlio entra nella pubertà.

Andrew Christensen, un professore dell’università della California a Los Angeles, che svolge ricerche sulla terapia di coppia e ha una lunga pratica clinica, ci offre un esempio perfetto dei conflitti più sottili che riscontra tra i genitori di adolescenti: “Tendiamo inevitabilmente a rispecchiare noi stessi nei figli. E poi vediamo il nostro partner che si comporta con nostro figlio come si comporta con noi”.

La proiezione è possibile. L’identificazione è possibile. E questo significa che tutto – competitività, invidia, disgusto – può saltare fuori. Questi non sono sentimenti suscitati dai bambini piccoli. Sono provocati da altri adulti. Scambiare gli adolescenti per adulti può essere particolarmente problematico nei rapporti molto conflittuali. Man mano che i ragazzi sviluppano la capacità di ragionare e solidarizzare, cresce la tentazione dei genitori di trascinarli nelle loro discussioni, aggravando la situazione.

Secondo uno studio molto originale e interessante, se i genitori sono ancora sposati le ragazze si sentono spinte a schierarsi con la madre, mentre i maschi tendono a farlo se i genitori sono divorziati, il che lascia pensare che gli adolescenti maschi si sentano in dovere di proteggere la madre quando il padre non è più in casa. Secondo un altro studio, i padri avvertono una significativa caduta della soddisfazione coniugale quando figli e figlie adolescenti cominciano a uscire con persone dell’altro sesso, soprattutto se si tratta di figli maschi. Questo fa supporre che i padri siano gelosi, o quanto meno che provino nostalgia per un’età che offriva possibilità illimitate.

Quando i figli diventano adolescenti, le discussioni dei genitori ruotano sempre più spesso sul figlio e sulla persona che sta diventando. E questi scontri possono essere particolarmente aspri quando i figli creano problemi.

“Un genitore è accomodante e l’altro è autoritario”, dice Christensen. “Succede spesso ed è una grossa sfida. Papà racconta le sue esperienze di droga e alcol, ma mamma ricorda che successe qualcosa di brutto. E allora litigano”.

È il tipo di discussione che Kate e Lee sembrano avere spesso. È proprio quello che Kate ha raccontato intorno al tavolo di cucina di Deirdre: “Io sono molto severa con i ragazzi, perciò lui non lo è affatto. Abbiamo litigato per questo anche oggi”.

Questa divisione di genere è confermata dai dati. In un recente campione di circa 3.200 genitori di ragazzi tra i 10 e i 18 anni, una fetta molto più alta di madri ha dichiarato che il compito della disciplina ricadeva interamente su di loro (il 31 per cento contro il 9 per cento dei padri). Le madri dichiaravano anche di fissare più limiti per i loro adolescenti: il 10 per cento in più restringeva l’uso dei videogiochi e l’11 per cento in più controllava le attività online.

Negli ultimi dieci anni, dice Darling, le ricerche dimostrano che adolescenti maschi e femmine rivolgono più offese verbali alle madri che ai padri, e le madri tendono di più a litigare con i figli adolescenti. Queste dinamiche possono spiegare perché le madri, contrariamente a quanto si pensa, tendono a soffrire meno dei padri quando i figli si allontanano da casa.

Kate ammette che il rapporto con la figlia è migliorato da quando è andata al college. Come dice Steinberg: “La crisi di mezza età delle donne non deriva dal lasciar andare i figli adolescenti, ma dal fatto di vivere con loro”.

Ecco cosa può avere l’impatto più forte dal punto di vista dei genitori: l’adolescenza li costringe a osservare se stessi. Anche i bambini piccoli ovviamente possono spingerci a valutare le nostre scelte. Ma sono gli adolescenti, di regola, a suscitare i più forti sentimenti di autocritica. Sono gli adolescenti che ci fanno interrogare su chi saremo e cosa faremo di noi stessi quando i nostri figli non avranno più bisogno di noi. Sono gli adolescenti a presentarci il conto delle nostre decisioni genitoriali e a farci chiedere se abbiamo fatto tutto bene.

Nell’ambito del suo studio sui genitori degli adolescenti, Steinberg aveva chiesto ai partecipanti di compilare una tabella di “considerazioni di mezza età” che comprendeva questa voce: “Mi scopro a desiderare di poter ricominciare tutto da capo e rifare le cose sapendo quello che so adesso”. Quasi i due terzi delle donne hanno ammesso di sentirsi spesso così. E più della metà degli uomini.

Sintetizzando i risultati della sua indagine, Steinberg ha precisato un punto fondamentale. Ha osservato che i soggetti del suo studio non desideravano una seconda adolescenza. “Quello che avrebbero voluto”, scrive Steinberg, “era poter essere adulti una seconda volta”. L’adolescenza dei figli li spingeva spesso a fare una sorta di bilancio complessivo, e questo può portare a sentimenti di orgoglio e realizzazione, ma anche di dubbio e rimpianto.

Rimpianti

Erik Erikson, uno degli psicanalisti più innovativi del novecento, ha parlato di questi momenti di introspezione esistenziale nella sua opera sul ciclo della vita umana. È nota la sua tesi secondo cui le persone attraversano otto fasi di sviluppo, ciascuna segnata da un conflitto specifico.

All’inizio dell’età adulta, per esempio, secondo Erikson dobbiamo imparare ad amare invece di svanire in una nebbia di narcisismo e autodifesa. Durante la seconda età adulta, invece, dobbiamo capire come condurre una vita produttiva e lasciare qualcosa alle generazioni future invece di soccombere all’inerzia (“generatività contro stagnazione”, è la sua definizione) e subito dopo la sfida è imparare ad accettare le esperienze che abbiamo avuto e le varie scelte che abbiamo fatto invece di arrenderci all’amarezza (“integrità contro disperazione e disgusto”).

I genitori degli adolescenti spesso fanno i conti con problemi molto simili, soprattutto “integrità contro disperazione e disgusto”. Parlano dell’esigenza di guardare al passato e integrare le scelte che hanno compiuto in una narrazione con cui possano convivere. Citando Erikson: “È l’accettazione del nostro solo e unico ciclo di vita e delle persone che in esso hanno avuto un ruolo come qualcosa che doveva essere e che non consentiva rimpiazzi”.

Le donne possono essere particolarmente inclini a questi momenti di autovalutazione. Secondo l’indagine sulla popolazione del 2010, oggi il 22 per cento di tutte le persone con figli tra i 12 e i 17 anni ha più di cinquant’anni, e il 46 per cento più di 45. Biologicamente parlando, questo significa che un numero elevato di madri di adolescenti è in menopausa o in premenopausa. Molte donne attraversano questa fase senza eccessivi sconvolgimenti, proprio come molti adolescenti attraversano la pubertà senza troppi problemi. Ma altre lottano con la malinconia e l’irritabilità, vedendo nella loro situazione lo specchio rovesciato dei figli adolescenti, che stanno entrando negli anni fertili.

Per Gayle, il rimpianto è aver abbandonato la sua carriera per tanto tempo. Quando prese quella decisione, aveva assolutamente senso. Ma negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con le conseguenze finanziarie.

Ricorda un viaggio in macchina con Mae quando era al terzo anno di liceo per visitare alcuni istituti del sistema universitario dello stato di New York. Litigarono aspramente. Mae pensava che la qualità di alcuni college era talmente scadente che non valeva la pena chiedere l’ammissione. “Io invece dicevo che avrebbe dovuto farlo”, racconta Gayle. Quei college erano tutto quello che lei e il marito, proprietario di una piccola ditta di vendita per corrispondenza, potevano permettersi. “Educhi i tuoi figli a credere che il mondo sia pieno di possibilità”, dice Gayle, “e in qualche modo pensi ‘sì, riusciremo a fare abbastanza soldi’. E poi tutt’a un tratto hanno 18 anni ed è ‘no, non puoi andare a quel college’”.

In quel viaggio in macchina, Gayle si rese conto di come la storia che aveva raccontato con tanto amore fosse stata a suo beneficio almeno quanto a beneficio di Mae. “Anche noi avevamo vissuto in quel mondo di sogni”. Le altre due figlie di Gayle, 14 e 17 anni, sono serene e accomodanti. Possono avere momenti di irritazione, ma di solito parlano con affetto quando si rivolgono alla madre.

Mae è sempre stata diversa. Gayle ricorda che già a 5 anni era una bambina ansiosa. In quinta Mae aveva problemi con la sua migliore amica, Calliope, e Gayle non riusciva a calmare la sua angoscia. “Mae entrava in ansia quando Calliope si arrabbiava e lei non capiva perché”, ricorda Gayle. “E così la seguiva chiedendo: ‘Cosa ho fatto?’. E io dovevo dirle: ‘Non fare così’”.

Poi, in terza media, Mae ha cominciato a tagliarsi. Gayle non conosceva nessuno che avesse un figlio con lo stesso problema, così ha fatto quello che le era possibile: ha trovato una terapista. Ha imparato ad ascoltare e, quando era opportuno, a dare consigli. E le cose sono migliorate.

Oggi guardando Mae si vede una ragazza carina e riflessiva che è quasi arrivata alla laurea in una grande università. Però si vede anche cosa intende Adam Phillips quando scrive che non è giusto chiedere la felicità a un figlio. Le aspettative assegnano ai figli il ruolo di “antidepressivi”, osserva, e rendono i genitori “più dipendenti dai figli di quanto i figli lo siano da loro”.

Però Mae, e questo è altrettanto importante, è anche un buon esempio del perché forse non è giusto chiedere ai genitori di avere figli felici. È un nobile obiettivo, ma come osservò Benjamin Spock, il pediatra che dominò il mercato dei consigli educativi dopo la seconda guerra mondiale, avere dei figli felici è un proposito più generico rispetto ai traguardi concreti del passato: formare ragazzi competenti in certi lavori ed educare cittadini moralmente responsabili capaci di rispettare determinati doveri verso la comunità.

Gli obiettivi del passato erano probabilmente più costruttivi, oltre che più realizzabili. Non tutti i ragazzi diventeranno adulti felici, malgrado gli sforzi dei genitori, e tutti i ragazzi sono infelici in qualche momento della loro crescita. Ci sono dei limiti oggettivi a quanto i genitori possono fare per proteggere i figli adolescenti dagli aspetti più dolorosi e implacabili della vita con cui si scontrano sistematicamente.

Da pari a pari

Ancora oggi Mae è più sensibile dei suoi coetanei. E Gayle non si rimprovera per questo. “Non mi sento inadeguata come madre”, spiega. “Sento l’inadeguatezza di un essere umano che non può risolvere i problemi di un altro essere umano”. Ma quando le chiedo se con gli anni ha imparato ad affrontare meglio il problema di avere una figlia ansiosa, risponde subito: “No”.

Mentre chiacchieriamo in cucina, cito Erik Erikson, chiedendole se ne ha mai sentito parlare. Dice che il nome le sembra familiare, ma non lo conosce davvero. Mae, che fino a questo momento è rimasta in silenzio accanto al piano da lavoro, lascia la stanza, sale di sopra e trova la copia di un libro di Erikson che ha letto per le lezioni di psicologia. Lo fa cadere sul tavolo davanti alla madre e poi si allontana di nuovo, sempre in silenzio.

Gayle mi sorride. “Sono queste le cose per cui viviamo”, dice. “Vogliamo che siano più bravi di noi. Vogliamo che siano più intelligenti, facciano più cose e sappiano di più”. Prende il libro e dà un’occhiata alla copertina e al retro. “Dio mio. Io non leggevo certe cose a vent’anni”.

E questo è tutto. Malgrado i nostri errori, eccoli qua, esseri umani formati e consapevoli che si muovono con i nostri stessi gesti e si misurano con noi da pari a pari.

Samantha, a casa sua, a un certo punto si era chiesta ad alta voce se aveva dedicato tutte le attenzioni necessarie a Wesley da bambino. “Quando era piccola Calliope Wesley veniva sempre svegliato dal suo riposino, depositato sul seggiolino dell’auto e ficcato da qualche parte”, ha detto. “Aveva così poche esigenze. E allora ho pensato forse sono io la causa. Non so quello che provi tu, Wesley…”. Poi ha guardato il figlio, così pieno di talento, così sensibile e, dio mio, così rompiscatole a volte. Lui l’ha guardata a sua volta e ha abbassato gli occhi con incertezza. Sono passati alcuni secondi, poi altri.

“Comincia a parlare quando sei pronto”, ha detto Samantha. Ma non era Wesley ad avere bisogno di tempo. Era lei. “Io penso che i figli siano la cosa migliore che abbia mai fatto e…”, la sua voce si è spezzata e ha cominciato a piangere. “Sono così orgogliosa di loro. Li adoro. L’altra notte ripensavo a quando Calliope era piccola, è passato così tanto tempo”.

I figli, sorpresi da questa improvvisa ondata di emozioni, si sono scambiati un’occhiata e hanno cominciato a commuoversi anche loro. “E poi ho pensato, be’, forse un giorno anche lei avrà un bambino”, ha detto Samantha asciugandosi il naso.

Wesley continuava a non dire niente. Anche Calliope, che non è mai a corto di parole, è rimasta in silenzio. Si è messa una mano sulla bocca, e con l’altra ha preso la mano della madre.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

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