Per capire i fatti di Los Angeles conviene concentrarsi non tanto su Trump ma su Stephen Miller, vicecapo di gabinetto della Casa Bianca e forse in questo momento la seconda persona più potente dell’amministrazione. Miller, che è nato proprio da quelle parti, è il collaboratore più ideologico e radicale del presidente, ha in mano la gestione della politica migratoria del governo e non solo. Il suo passato e le sue azioni attuali aiutano a mettere in contesto i fatti di questi giorni e forse danno qualche indicazione su ciò che potrebbe succedere.

La sua visione politica sembra una risposta al contesto progressista e borghese in cui è nato (nel 1985) e cresciuto a Santa Monica, nella zona nord di Los Angeles. Al liceo cominciò a farsi notare per le sue idee reazionarie. In un ambiente scolastico noto per il suo pluralismo e l’inclusività, Miller si distingueva per le critiche verso le politiche multiculturali e le iniziative antirazziste, spesso scrivendo lettere provocatorie al giornale scolastico.

Racconti dei suoi ex compagni di classe e insegnanti lo descrivono come isolato e ostinatamente ideologico, deciso a mettere in discussione i valori dominanti della sua comunità. Durante l’adolescenza Miller fu fortemente influenzato dagli scritti di autori di destra, come il conduttore radiofonico Rush Limbaugh e soprattutto David Horowitz, un ex radicale di sinistra convertito al neoconservatorismo. Proprio Horowitz divenne un mentore intellettuale per Miller, introducendolo al pensiero reazionario, alla denuncia del “marxismo culturale” e alla critica feroce del multiculturalismo.

Miller completò gli studi universitari nell’ateneo di Duke e poi, proprio grazie a Horowitz, cominciò a lavorare come addetto stampa per la deputata Michele Bachmann, una delle figure di spicco del Tea party, la fazione radicale nata nel Partito repubblicano intorno al 2007.

Nel 2016 Miller entrò nella squadra della campagna elettorale di Trump e poi nella sua prima amministrazione, come consigliere e autore dei discorsi del presidente. In quegli anni provò a imporre la sua linea ultraconservatrice e nativista – fu tra i principali promotori del cosiddetto travel ban, il divieto d’ingresso per i cittadini di alcuni paesi, delle politiche per ridurre il numero di rifugiati accolti negli Stati Uniti e per separare le famiglie al confine – ma i suoi sforzi furono in buona parte vanificati dagli interventi dei componenti più moderati dell’amministrazione Trump.

Oggi le dinamiche interne alla Casa Bianca sono molto diverse. Dopo aver rivinto le elezioni Trump si è accertato di non avere nella sua squadra persone che potessero limitare i suoi istinti più estremi e questo ha dato un potere enorme a Miller, che ha avuto il ruolo di vicecapo di gabinetto e principale consigliere sulla sicurezza interna. È la persona più giovane a ricoprire questo ruolo. Per la verità associarlo solo all’immigrazione è riduttivo. Nell’amministrazione Miller è tra quelli che stanno facendo di più per espandere l’autorità dell’esecutivo, convinto che il potere del presidente non dovrebbe avere limiti e che si possa fare ricorso all’uso della forza militare per reprimere le proteste.

Poco dopo l’inizio delle proteste per le retate contro i migranti, Miller è stato uno dei più agguerriti nel criticare la decisione del governatore della California, Gavin Newsom, di contestare la decisione di Trump di imporre l’intervento della guardia nazionale, e ha pubblicato un post su X: “Enormi zone della città in cui sono nato ora somigliano a nazioni del terzo mondo fallite. Una società frammentata e balcanizzata di estranei”. Queste posizioni rivelano la volontà di dare una lezione a quella coalizione di sinistra – formata da giovani ispanici, molti dei quali figli di immigrati di prima generazione, progressisti più anziani, studenti universitari e attivisti – che domina la città dai tempi in cui Miller era un giovane di destra, e quindi di trasformare Los Angeles nel palcoscenico nazionale per mostrare cos’è il trumpismo quando passa dalle parole ai fatti: caccia allo straniero, repressione del dissenso, attribuzione di un potere senza limiti.

La conferma che per Miller e Trump la crisi in California sia soprattutto un nuovo passo della guerra culturale contro la sinistra è arrivata il 12 giugno, durante la conferenza stampa della segretaria per la sicurezza nazionale Kristi Noem (la stessa in cui Alex Padilla, senatore del Partito democratico, è stato bloccato a terra e ammanettato dall’Fbi per aver provato a fare delle domande). Parlando di quali siano gli obiettivi della Casa Bianca, Noem ha promesso di “liberare la città di Los Angeles dalla leadership socialista di questa sindaca e di questo governatore”.

Ma perché hanno deciso di far precipitare le cose proprio adesso? La risposta probabilmente ha a che fare con le difficoltà politiche del presidente su vari fronti, sia all’interno sia in politica estera, e quindi con la necessità di recuperare consensi su temi – immigrazione e sicurezza – che continuano a essere una spina nel fianco per la sinistra. Ma c’è soprattutto la delusione dell’ala populista della Casa Bianca, Miller in testa, per come stava andando il piano di espulsioni. Secondo i giornali americani, una data importante in questa storia è il 21 maggio.

Quel giorno Miller e Kristi Noem hanno convocato a Washington i capi degli uffici regionali dell’Immigration and customs enforcement (Ice, la polizia federale per il controllo delle frontiere) per una ramanzina. Trump aveva promesso “la più grande campagna di espulsioni di massa nella storia degli Stati Uniti” e voleva un milione di espulsioni all’anno. Gli agenti dell’Ice fino a quel momento avevano arrestato molte più persone rispetto a quando c’era Biden alla Casa Bianca, ma erano lontani dai numeri voluti da Trump. In quell’occasione Miller ha chiesto tremila arresti al giorno, circa quattro volte in più il dato registrato fino a quel momento, e ha demansionato diversi alti funzionari dell’Ice che non si stavano avvicinando a quella quota. Ha anche ordinato ai funzionari dell’Ice di ignorare le direttive precedenti, che prevedevano di concentrarsi sugli immigrati con precedenti penali e di condurre retate nei luoghi dove generalmente si ritrovano gli immigrati.

Per raggiungere questi numeri, l’Ice ha riorganizzato i turni su sette giorni alla settimana, ha coinvolto agenti solitamente dedicati ad altre indagini, come la tratta di esseri umani, e ha lanciato appelli pubblici per ricevere segnalazioni anonime. L’agenzia ha cominciato anche a fare più ricorso alla tecnologia, usando un’app chiamata Atrac (che sta per Alien Tracker), sviluppata grazie all’intervento dei collaboratori di Elon Musk. L’app usa dati provenienti da numerose agenzie federali per mappare in tempo reale più di 700mila persone con ordini di espulsione esecutivi, includendo informazioni come precedenti penali e posizione geografica (dell’uso dei dati a scopi repressivi ho parlato la settimana scorsa).

Con il sostegno della polizia di frontiera, dell’Fbi, dell’agenzia antidroga e di altre agenzie federali incaricate di dare una mano, gli agenti hanno cominciato ad arrestare le persone che si presentano agli appuntamenti in tribunale per le loro richieste di visto o ai controlli periodici per dimostrare di aver rispettato le ordinanze del giudice. A Los Angeles le squadre dell’Ice hanno preso di mira i parcheggi della catena Home Depot (come racconta questo reportage), dove spesso si concentrano i lavoratori a giornata, i cantieri e anche una fabbrica di abbigliamento nel centro della città. Questo è stato un punto di rottura per molti abitanti di Los Angeles (dove un terzo dei residenti è nato all’estero).

Nonostante gli sforzi, però, i numeri restano fluttuanti. Dopo un picco di duemila arresti in un giorno, i dati sono scesi rapidamente a 1.400, poi 1.200 e infine a 700. Il New York Times ha seguito una squadra di dieci agenti a Miami, che in un giorno è riuscita ad arrestare solo tre persone. “Gli arresti di Miami hanno messo in evidenza una delle principali sfide che l’Ice deve affrontare per aumentare il numero degli arresti: è un lavoro meticoloso che produce scarsi risultati. Gli agenti dedicano molto tempo alla sorveglianza, inviando più agenti a sorvegliare un luogo per ore. A volte l’indirizzo è vecchio o sbagliato”. Questo fa pensare che ci sarà un ulteriore giro di vite, sia nelle strade sia a livello politico. Sul primo fronte aumenteranno ulteriormente le retate a strascico, cioè operazioni in cui le persone vengono arrestate semplicemente per via del loro colore della pelle, cosa che peraltro potrebbe portare all’arresto anche di cittadini americani.

Sul fronte politico Miller e Trump spingeranno ancora di più per far passare al congresso la legge finanziaria (il presidente vorrebbe firmarla entro il giorno dell’indipendenza, il 4 luglio), che stanzierebbe più di 150 miliardi di dollari per l’applicazione delle leggi sull’immigrazione, compresi decine di miliardi per nuovi agenti dell’Ice, appaltatori, strutture di detenzione e voli di rimpatrio.

Per ora alla Casa Bianca sono contenti di come stanno andando le cose. L’intervento di Trump e Miller ha alimentato il caos e messo il governatore della California Gavin Newsom, uno dei potenziali candidati democratici alle prossime presidenziali, in una posizione molto scomoda: da una parte deve mostrarsi duro e capace di ristabilire l’ordine nelle strade (è stata la polizia locale a intervenire a Los Angeles, non le truppe mandate da Trump), dall’altra è costretto a scontrarsi con il presidente, confermando la sua fama di radicale agli occhi dell’opinione pubblica nazionale.

Trump invece è in una posizione ideale, perché avrà qualcuno da incolpare se il suo programma di espulsioni dovesse incepparsi. Ma tra i repubblicani c’è anche chi pensa che il presidente stia seriamente rischiando di darsi la zappa sui piedi, se le forze federali dovessero essere coinvolte nelle violenze o se le proteste dovessero portare alla nascita di un movimento nazionale, risvegliando l’opposizione.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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