È un pomeriggio soleggiato a Orano (Wahran, in arabo), in Algeria, e sto curiosando tra le rovine del Palais du bey. Il palazzo sul mare, ora fatiscente, fu costruito dagli ottomani all’inizio del settecento dopo che i turchi strapparono il controllo della città portuale agli spagnoli, che l’avevano conquistata nel 1509. Gli spagnoli la riconquistarono venticinque anni dopo, gli ottomani la ripresero verso la fine dell’ottocento.

Poi arrivò la colonizzazione francese dell’Algeria, nel 1830, che durò 132 anni. Ogni invasore ha lasciato un’impronta sulla città. Il Palais du bey aveva un harem e degli hamam, ma ai francesi non piaceva fare il bagno, dice Haflid, una guida che pubblicizza i suoi servizi vicino al capannone riadattato a centro visitatori. “Così costruirono delle docce”, dice ridendo. Nonostante la bella giornata gli affari vanno male: oltre a me ci sono solo due anziane signore algerine vestite di colorati abaya (l’indumento femminile usato in alcuni paesi musulmani).

“Questo non è ottomano?”, chiede una di loro ad Haflid, picchiettando con il bastone l’ampia terrazza in pietra che si affaccia su uno spicchio di mar Mediterraneo. “No, no, la terrazza è stata costruita dall’esercito spagnolo”, la corregge Haflid. Tornati all’interno la guida prosegue: “Questo è francese, quello è algerino, quello è ottomano, quello è spagnolo, quello è francese”, indicando prima un frammento di muro in malta, poi una porta ad arco circondata di fiori, una stalla e infine la cella di una prigione.

Gioia di vivere

A chi è cresciuto pensando che la documentazione storica fosse qualcosa di solido e lineare – una sorta di piedistallo in marmo su cui poggia il presente – quella di Orano può sembrare più una sala degli specchi. La città fu fondata all’inizio del decimo secolo come snodo commerciale andaluso. All’epoca del colonialismo francese due terzi della popolazione era composta da coloni europei chiamati spregiativamente pied-noir (piedi neri); non si sa se il termine si riferisce alla pigiatura dell’uva o alla rinuncia alle scarpe. Oggi Orano è completamente algerina, ma la città rimane geograficamente e culturalmente legata al resto del Mediterraneo. Proprio come il Palais du bey – uno dei monumenti più suggestivi, anche se trascurati, della città.

Si può girare l’angolo e passare da una moschea di epoca ottomana a una torretta art déco, da un teatro dell’opera in stile parigino a una bancarella che vende karantika (simile alla farinata di ceci, in questo caso forse di origine spagnola). Guide turistiche come Haflid tengono traccia di chi ha costruito cosa. Per tutti gli altri, questa è semplicemente Orano.

Appena scesa dall’aereo ad Algeri, in attesa di prendere il treno per Orano, vado in un caffè vicino alla casbah, un groviglio di vicoli tortuosi collegati da scalinate ripide. La coppia algerina al tavolo accanto mi chiede dove sono diretta. Quando gli dico che sto andando a Orano, mi rispondono: “È fantastica!”.

ll treno viaggia lentamente ed entra sbuffando nella stazione art déco, completamente bianca. Ci arriva dopo un viaggio di quattrocento chilometri durato sei ore, attraverso colline basse, città squadrate e mandrie di pecore al pascolo.

Prima di tutto voglio ascoltare un po’ di musica raï. In nessun luogo la joie de vivre (gioia di vivere) di Orano è più evidente che nel raï, nato in questa città portuale negli anni venti del secolo scorso. I testi sono senza tabù. “La gente adora Dio, io la birra”, cantava la leggendaria artista raï Cheikha Rimitti, la cui Charrak gatta, del 1954, è considerata un riferimento alle ragazze che perdono la verginità. Il raï lo cantano sia le donne sia gli uomini; attinge alle tradizioni musicali ebraiche e andaluse, arabe classiche e beduine. Gli artisti più giovani mescolano i loro stili con l’hip-hop, ma in città il raï è ancora predominante. I cantanti adottano i titoli cheb e cheba, che significano giovane – un gioco di parole sugli onorifici classici cheikh e cheikha, ovvero “anziano”. Molti di loro hanno raggiunto la fama internazionale. Cheb Khaled, nato a Orano nel 1960, è soprannominato il re del raï e ha cantato ai mondiali di calcio in Sudafrica nel 2010. Cheikha Rabia, figlia di un veterano della prima guerra mondiale e nota per la sua voce potente, riempie ancora i locali della sua città adottiva, Parigi, dopo cinquant’anni di attività.

Alle otto di sera i negozi del centro sono già chiusi. Quando chiedo del raï, le persone ridono imbarazzate. “Non aspettarti che le ragazze ascoltino la musica raï in pubblico. Ma in privato lo fanno tutti”, mi spiega Chahrazade Douah, giornalista franco-algerina residente in Spagna. E aggiunge: “In privato come si fa a non ballare?”.

“C’è un bar, Le Cardinal”, mi confida Lounes, un cameriere che sorseggia un tè alla menta. “C’è un cantante di musica raï, si chiama Redouane. Vai e chiedi del direttore, Nabil. Digli che ti manda Lounes”.

All’interno del Cardinal una decina di uomini si accalca intorno a un bar vecchio stile con boiserie. Quando entro spalancano gli occhi. La stanza è avvolta dal fumo. Nabil mi viene incontro e mi stringe calorosamente la mano. Mi avverte che Redouane andrà in scena a mezzanotte e mezza. La musica raï, amata dagli ambienti più liberali di Orano, conserva ancora un’aura sovversiva. Non perché l’unica altra donna che stasera è al Cardinal va in giro infilandosi le banconote nel corpetto trasparente, ma perché questo tipo di musica è stata bandita dai governi conservatori per gran parte della storia dell’Algeria indipendente. La repressione è aumentata negli anni novanta e molti cantanti sono fuggiti in Francia.

“La legge stabilisce che fanno parte del nostro patrimonio tutte le civiltà presenti qui dalla preistoria fino a oggi”

Nel 1994, due anni dopo l’inizio di una guerra civile durata undici anni e soprannominata decennio nero, condotta da gruppi islamisti, il cantante Cheb Hasni, di 26 anni, fu ucciso a colpi d’arma da fuoco vicino alla casa dei suoi genitori a Orano. Nel 1995 il produttore musicale Rachid Baba Ahmed fu assassinato nel suo negozio di dischi a Orano. Cheb Khaled e molti altri artisti algerini cercarono rifugio in Francia.

Con questa storia nella mente è difficile non commuoversi guardando Redouane mentre sorride e canta in arabo e in francese. Un ritmo galoppante martella gli altoparlanti che mandano un riverbero metallico. Redouane impreziosisce le sue canzoni con dediche al pubblico, inclusa me: “Sophiaaa”, canta, “soyez la bienvenue!” (sei la benvenuta).

In breve tempo, perfino i bevitori più accaniti abbandonano i loro whisky e cominciano a muovere le braccia a ritmo.

Crocevia di culture

Un ultimo bicchiere in un bar e una canzone audace. Può sembrare poco, ma questa è l’Algeria. “Ricorda un po’ Parigi nell’ottocento”, dice meravigliato monsieur Khaddar, il direttore dell’albergo Les Ambassadeurs, dove alloggio. Stiamo sfrecciando tra palazzi haussmanniani. Passiamo davanti a un’insegna dipinta a mano per le sigarette Gauloises e davanti a un negozio di scarpe: c’è scritto Chaussures au pied mignon (calzature per piedi graziosi).

Il fatto che Khaddar abbia abbandonato la sua postazione alla reception per farmi da autista è la prova inconfutabile dell’inconsistenza dell’industria turistica di Orano (nel 2019 hanno visitato l’Algeria solo due milioni di stranieri, in gran parte provenienti dalla diaspora algerina, rispetto ai tredici milioni del vicino Marocco). Seguiamo una serie di tornanti fino al forte di Santa Cruz, costruito dagli spagnoli nel cinquecento. Il Palais du bey è visibile sullo sfondo del mare blu e del porto industriale, pieno di magazzini e navi cargo con scritte cinesi.

Arrivati sulla collina che domina Orano parcheggiamo l’auto in uno spiazzo sterrato e saliamo un sentiero che porta alla fortezza. “Abbiamo vissuto anni bui”, mi dice Khaddar, riferendosi alla guerra civile. “Per dieci anni non abbiamo potuto uscire, andare nei locali”. Khaddar, ormai sulla sessantina, spiega che le fazioni islamiste allestivano posti di blocco, rapivano e uccidevano, prendendo di mira persone, come gli artisti di musica raï, considerate promotrici di idee occidentali o liberali. Questo regno del terrore sembra misericordiosamente lontano mentre osservo alcune donne algerine in abiti a fiori posare per dei selfie davanti alla cappella di Santa Cruz, un monumento dell’ottocento che raffigura una statua della vergine Maria con le braccia tese verso la costa, la risposta di Orano al Cristo redentore (la statua che domina Rio de Janeiro, in Brasile).

Eppure continuano a dirmi che è impossibile apprezzare il patrimonio della zona senza andare a Tlemcen, una città a centosessanta chilometri da Orano, verso il confine con il Marocco. Fu il regno degli zayyanidi, una dinastia berbera medievale, e un centro di cultura islamica. Ebrei e musulmani dell’Andalusia ci si stabilirono durante l’inquisizione spagnola, diffondendo abilità artigianali e tradizioni musicali come quella dei nuba. “Se Orano è la città più mediterranea dell’Algeria, Tlemcen è il punto in cui influenze arabe, amazigh (berbere) e andaluse si fondono per dare vita a una cultura unica che non si trova in nessun altro luogo del Nordafrica”, afferma Chahrazade Douah.

Incisioni coraniche

Parto di mattina presto e m’infilo insieme ad altre persone in un minivan. Lontano dalla costa il paesaggio è più arido. Dopo due ore di autostrada arriviamo a Tlemcen. La mia prima tappa è il palazzo El Mechouar, sede del potere zayyanide nel duecento. Quando nel 2011 Tlemcen è stata dichiarata “capitale della cultura islamica” dall’Organizzazione mondiale islamica per l’educazione, la scienza e la cultura (Icesco), con sede a Rabat, in Marocco, il palazzo è stato restaurato in stile disneyano. Sembra una piccola Alhambra (il grande palazzo di Granada) con incisioni coraniche su pietra e nel cortile una vasca circondata dalle arcate di un chiostro. In una stanza piastrellata, un manichino a grandezza naturale con il fez – a quanto pare il sultano zayyanide – osserva i visitatori da un trono fucsia.

In città visito un museo di calligrafia con manichini di scrivani chini su testi arabi; la moschea di Sidi Boumediene, del trecento, dove una donna in abaya nera siede davanti a porte rivestite in bronzo finemente inciso mormorando preghiere coraniche; la tomba a cupola, profumata d’incenso, dello stesso Sidi Boumediene, mistico e poeta sufi nato a Siviglia nel dodicesimo secolo. È tutto abbagliante e magnificamente conservato, ma l’effetto complessivo è stranamente monotono. Per secoli Tlemcen ha ospitato una comunità ebraica (il Maghreb vantava una presenza ebraica fin dall’epoca fenicia), ma i francesi seminarono discordia quando, nel 1870, con il decreto Crémieux naturalizzarono gli ebrei algerini assegnandogli lo status di cittadini francesi. Nel 1962, dopo l’indipendenza dell’Algeria, quasi tutti fuggirono in Francia o in Israele. “Ci si aspetta che abbiamo una sola lingua, una sola religione, una sola cultura”, osserva la scrittrice algerina Hédia Bensahli nel suo libro L’Algérie juive (L’Algeria ebraica). “Ma l’Algeria, malgrado quanto si dice, è come qualsiasi altro paese al mondo. Non può essere marchiata con il sigillo dell’uniformità. È plurale”.

Tornata in città telefono a Kouider Metair, fondatore e direttore di Bel Horizon, un’associazione nata nel 2001 con lo scopo di salvaguardare il patrimonio culturale, per chiedergli informazioni sulle radici plurali di Orano. “La legge stabilisce che fanno parte del nostro patrimonio tutte le civiltà presenti qui dalla preistoria a oggi. Da un punto di vista ideologico la cosa non è del tutto accettata”, spiega Metair.

Oltre ai progetti di conservazione (come il salvataggio del Palais du bey, che doveva essere abbattuto per costruire un albergo a cinque stelle), l’associazione pubblica guide turistiche e ha organizzato una passeggiata a piedi fino al forte di Santa Cruz a cui hanno partecipato ventimila persone. “On s’amuse (ci divertiamo), ecco cosa significa patrimonio. Non si tratta solo di storia, libri e guerre”, spiega Metair. Nella sede di Bel Horizon, a due passi dal lungomare, Metair mi fa vedere online una proposta di ristrutturazione per il Derb, l’antico quartiere ebraico di Orano. I palazzi neoclassici sembrano rinnovati grazie a un restauro delle facciate generato al computer. “Gli edifici storici fanno parte della memoria collettiva, ma richiedono un’enorme manutenzione”, spiega Metair. Mi sembra che restaurare il patrimonio architettonico della città sia un po’ come restaurare le comunità scomparse di Orano. La grande sinagoga, costruita nel 1880, oggi è una moschea, mentre la cattedrale del Sacré-Cœur, decorata da mosaici, è un’ariosa biblioteca frequentata da studenti e gatti randagi. Sono entrata aspettandomi di trovare le panche di una chiesa, ma al loro posto c’erano bibliotecari che trasportavano libri nella luce filtrata da vetrate colorate.

Ballando sul lungomare

È tardi ormai e le saracinesche dei negozi si stanno abbassando rumorosamente. Metair chiede a Zack, un architetto neolaureato, di accompagnarmi di nuovo in centro. Percorriamo una strada con un porticato immerso nell’ombra dove, mi dice, ha vissuto lo scrittore Albert Camus, che a Orano ambientò La peste. Non c’è una targa, ma l’associazione Bel Horizon ha rintracciato la casa riconoscendo l’edificio da una foto scattata dalla moglie di Camus. “Vedi quella specie di piramide laggiù?”, Zack indica la bizzarra cima di un edificio liberty. “Nel saggio Il minotauro, scritto nel 1939, Camus afferma che l’edificio sembra un pasticcino rovesciato” .

Saliamo sul tram illuminato a giorno. “Allora, ti accompagno in albergo?”, chiede Zack. “A dire il vero è la mia ultima sera a Orano e mi piacerebbe ascoltare ancora un po’ di raï”, rispondo. Zack fa una chiamata in arabo e poi si volta verso di me e dice: “Sei fortunata. C’è un concerto stasera sulla Corniche”, il lungomare di Orano, che si trova a una ventina di minuti di taxi dal centro ed è pieno di locali notturni. Un’ora dopo stiamo ballando sotto i fasci di luce rosa di una discoteca mentre una band di quattro elementi si esibisce con tastiere e percussioni.

Camus definì una volta Orano “capitale della noia”, lontana anni luce dalla vitalità di Parigi. Dubito che stasera sarebbe dello stesso parere. Tuttavia, ore dopo, quando il sole è già alto in cielo e i ritmi del raï continuano a risuonarmi nelle orecchie, mentre vengo accompagnata al mio albergo percorrendo strade immerse nel silenzio, mi trovo d’accordo con un’altra affermazione di Camus: “Orano ormai non ha più bisogno di scrittori. Aspetta i turisti”. ◆ nv

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: [email protected]

Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati